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Coldiretti. Invasione di pomodoro cinese. Concorrenza sleale per i prodotti di qualità sardi

redazione
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L’invasione di pomodoro cinese, che nel 2016 ha visto sbarcare in Italia circa 100 milioni di chili di concentrato, con un aumento del 43%: quantità pari a circa il 20% della produzione nazionale in pomodoro fresco equivalente, penalizza anche le piccole produzioni sarde.

Nell’isola, infatti, sono 320 mila, in media, i quintali di pomodoro da industria che si producono, prodotti in circa 400 ettari distribuiti tra il Medio Campidano e l’Oristanese. I produttori sono 70, riuniti tutti nella cooperativa Arpos, presieduta da Priamo Picci con sede a Sanluri.

Lo scorso anno è stata una stagione straordinaria con un aumento di produzione (370mila quintali) comunque la metà rispetto a 25 anni fa quando invece i quintali erano circa 700 mila.

“C’è qualche azienda in Italia che produce quanto tutta l’isola – spiega Priamo Picci -. Abbiamo la terra e il clima adatto per triplicare la produzioni”.

Tutto il pomodoro sardo oggi è trasformato dall’industria Casar, 10 mila dei quali sono destinati al marchio Io sono sardo, che garantisce la certificazione di filiera e tracciabilità.

“In Sardegna abbiamo scelto di puntare sull’alta qualità del prodotto – spiega il presidente dell’Arpos Priamo Picci – grazie ad un accordo di filiera. Il pomodoro che conferiamo all’industria ha solo un margine del 10 per cento di scarto. Nulla rispetto alle percentuali che si riscontrano anche nel resto d’Italia”.

La filiera Io sono sardo, nata nel 2011, sta crescendo di anno in anno e garantisce un buon margine ai produttori.

In cinque anni sono passati dalla lavorazione di 500 quintali a 10mila. Il prodotto è venduto soprattutto nei mercati di Campagna Amica e nei negozi affiliati sardi e nazionali. Da quest’anno inizierà la vendita (piccole quantità) in Svizzera, Germania e Norvegia.

Il resto del pomodoro sardo trasformato da Casar viene venduto per il 70 per cento nell’isola, il 25 nel resto d’Italia circa il 5 per cento all’estero.

I dati sull’invasione dei concentrati cinesi ed esteri in Italia va a braccetto con i prodotti che si trovano negli scaffali dei negozi che sono a metà prezzo rispetto ai prodotti di qualità sardi.

“Siamo riusciti a ritagliarci una buona posizione sul mercato con un prodotto certificato e di qualità – afferma Picci -. Certo non possiamo concorrere con certi prezzi presenti sul mercato. Vendiamo il pomodoro già a prezzi risicati (12,20 al quintale), fermi da tre anni. Se dovesse scendere ulteriormente saremmo costretti a produrre sotto i costi di produzione: il nostro è un prodotto sano e garantito. Facciamo una attenta e severa produzione e selezioniamo il prodotto già sul campo”. 

Negli ultimi anni si sta assistendo ad un crescendo di navi che dalla Cina sbarcano fusti di oltre 200 chili di peso con concentrato di pomodoro da rilavorare e confezionare come italiano poiché nei contenitori al dettaglio è obbligatorio indicare solo il luogo di confezionamento, ma non quello di coltivazione del pomodoro. Un commercio che va reso trasparente con l’obbligo ad indicare in etichetta l’origine degli alimenti che attualmente vale in Italia solo per la passata di pomodoro, ma non per il concentrato o per i sughi pronti.

“Tutti i prodotti devono avere una etichetta che riporti l’origine della materia prima. Il problema è sempre lo stesso – sottolinea il presidente di Coldiretti Sardegna Battista Cualbu –. Che si parli di riso, grano o pomodoro, i nostri prodotti di altissima qualità, certificati e genuini si ritrovano a dover concorrere con prodotti di cui non si conosce l’origine e i metodi di produzione e trasformazione. La conseguenza è che si riducono le coltivazioni locali a vantaggio di prodotti importati. In questo modo si abbandonano le terre, perdiamo posti di lavoro e ci ritroviamo con prodotti che fanno male anche alla salute”.

La Cina ha conquistato il primato nel numero di notifiche per prodotti alimenti irregolari perché contaminati dalla presenza di micotossine, additivi e coloranti al di fuori dalle norme di legge, da parte dell’Unione Europea, secondo una recente elaborazione sulla base della Relazione sul sistema di allerta per gli alimenti relativa al 2015. Su un totale di 2967 allarmi per irregolarità segnalate in Europa, ben 386 (15%)  hanno riguardato il gigante asiatico.

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