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De Poesia Sarda

di Francesco Casula

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1. La poesia orale, come canto.
La lingua sarda, la nostra lingua materna, è soprattutto senso, suoni, musica. Lingua di vocali. Dunque corporale e fisica e insieme aerea, leggera e impalpabile. E le vocali sono per il poeta l’anima della lingua, sono il nesso fra la lingua e il canto; fra la poesia, i numeri della musica, il ritmo e il ballo.
Tanto che, storicamente, i confini fra poesia e musica e danza, sono sempre stati labili e sfumati a tal punto che gli antichi poeti – gli aedi greci per esempio – non scrivevano poesie ma le cantavano, accompagnandosi con la lira: non a caso nasce il termine “lirica” e aoidòs in greco significa “cantore”.
Ma “cantano” anche Dante e Petrarca, Ariosto e Tasso e Leopardi. E i “cantadores” sardi, soprattutto gli improvvisatori. Anzi questi cantano e basta:non scrivono la poesia. E non solo perché spesso non sanno scrivere ma perché la poesia nasce come canto, come musica non come testo scritto da leggere. E’ curioso l’esempio di Diego Mele, uno dei più grandi e significativi poeti satirici in lingua sarda, le cui canzoni popolari, erano, come lo sono ora in bocca di tutti - annoterà Giovanni Spano, archeologo nonché storico e studioso della lingua - ma non erano ancora scritte. Anzi le sue poesie per decenni circolano solo oralmente e solo un anno prima della morte accetta di dettarle al figlioccio, Pietro Meloni Satta nel 1860.

2. La poesia come canto e musica. Per ballare.
I grandi poeti in limba sarda i versi sembrano carezzarli e coccolare tessendoli così abilmente, che spesso essi si risolvono nel terso nitore della parola, nel giro musicale della frase, nella misura metrica di ritmi sapientemente scanditi e guidati da un orecchio musicale che riesce a ordire, con acuta selezione di lessemi, aggettivi e fonemi, fini ricami di immagini potenti e di metafore ardite.
Essi cantano con quella lingua materna che riassume la fisionomia, il timbro, l’energia inventiva, la cultura, la civiltà peculiare del nostro popolo. Una lingua – il Sardo – che è insieme memoria e universo di saperi e di suoni. Che sottende – talvolta in modo nascosto e subliminale – senso e insieme oltresenso, musica, ritmo e ballo. Segnatamente il ballo tondo: momento magico in cui l’intera comunità, tott’umpare, si pesat a ballare, si muove in cerchio. E con questo esprime una molteplicità di segni, significati, simboli e riti: l’armonia dell’universo, il movimento dell’acqua e del fuoco, il Nuraghe. E con esso tutta la civiltà e la cultura nuragica che evoca e richiama: la democrazia federalista e comunitaria, il rifiuto del capo, del gerarca, del sovrano – la Sardegna è sempre stata acefala – la difesa intransigente dell’autonomia e dell’indipendenza di ogni singola comunità, di ogni singolo villaggio.

3. La lingua materna ricca, libera e pregante,
Quella lingua che è soprattutto espressione della nostra civiltà e della nostra storia dunque ma nel contempo, strumento per difendere e sviluppare la nostra identità e la nostra coscienza di popolo e di nazione. Una lingua, i cui lemmi che la compongono, infatti, prima di essere un suono sono stati oggetti, oggetti che hanno creato una civiltà, oggetti che hanno creato storia, lavoro, tradizioni, letteratura, cultura. E la cultura è data dal battesimo dell’oggetto.
Quella lingua che è ancora libera, popolana, vera, indipendente, ricca: istinto e fantasia, passione e sentimento. A fronte delle lingue imperiali, viepiù fredde, commerciali e burocratiche, viepiù liquide e gergali,invertebrate e povere, al limite dell’afasia: certo indossano cravatta e livrea ma rischiano di essere solo dei manichini. Come la stessa lingua italiana “senza i calli dei dialetti di origine. Perché essa certo deriva dal latino ma soprattutto da un’Amazzonia di dialetti, da un bacino alluvionale di parlate locali arroccate in centinaia di borghi, suddivise in millesimi di sfumature, dialetti rimasti inespugnabili per secoli. L’Italiano sta a valle di innumerevoli affluenti, indipendenti e fieri del loro vocabolario, dell’accento irrepetibile da chi non ci è nato” (Erri De Luca). Senza questa ricchezza l’Italiano si estingue o comunque deperisce.
Una lingua, quella sarda che – se insegnata con intelligenza nelle Scuole di ogni ordine e grado – potrebbe servire persino per migliorare e favorire, soprattutto a fronte del nuovo “analfabetismo di ritorno“, viepiù trionfante, a livello comunicativo e lessicale, lo “status linguistico”. Che oggi risulta essere, in modo particolare nei giovani e negli stessi studenti, povero e banale. Tanto che qualche studioso sostiene la tesi dei giovani “semiparlanti”: che non conoscono più la lingua sarda e parlano (e scrivono) un italiano frammentario, disorganizzato, improprio, gergale; la cui parola dice di sé solo le accezioni selezionate dal Piccolo Palazzi: senza metafore, senza natura,senza storia, senza vita.

4. La lingua sarda: segno e simbolo dell’appartenenza e dell’identità
Quella lingua che è soprattutto valore simbolico di autocoscienza storica e di forza unificante, il segno più evidente dell’appartenenza e delle radici che dominatori di ogni risma e zenìa hanno cercato di recidere.
Ma nessun ripiegamento nostalgico o risentito verso il passato: ma il passato sepolto, nascosto, rimosso, censurato e falsificato, si tratta prima di tutto di ricostruirlo, di dissotterrarlo, di conoscerlo e in qualche modo, anche di inverarlo, perché diventi fatto nuovo che interroga l’esperienza del tempo attuale, per affrontare il presente nella sua drammatica attualità, per definire un orizzonte di senso, per situarci e per abitare, aperti al suo respiro, il mondo, lottando contro il tempo della dimenticanza e della smemoratezza.

5. Cos’è la poesia per Montanaru

It’est sa poesia?… Est sa lontana
bell’immagine bida e non toccada,
unu vanu disizu, una mirada,
unu ragiu ’e sole a sa fentana,

Unu sonu improvisu de campana,
sas armonias d’una serenada
o sa oghe penosa e disperada
de su entu tirende a tramuntana.

It’est sa poesia?… Su dolore,
sa gioia, su tribagliu, s’isperu,
sa oghe de su entu e de su mare.

Sa poesia est tottu, si s’amore
nos animat cudd’impetu sinceru,
e nos faghet cun s’anima cantare.

(Montanaru)

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