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Storie nostre. Francesco Dore, un medico olzaese prestato al giornalismo e alla politica (5 puntata)

di Salvatore Murgia

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5 puntata – Vita nuova a Roma

Quando a Orune fu deciso di dividere il salto comunale, giunse da Nuoro Attilio Deffenu che – da buon socialista sindacalista – pur essendo un difensore  della proprietà collettive, «parlò in piazza nel suo bello e vigoroso dialetto Nuorese, per persuadere che soltanto la quotizzazione dei terreni comunali avrebbe potuto dare grande impulso ai miglioramenti agrari desiderati dal Paese. Le idee dottrinali lo avrebbero dovuto indurre a parlare diversamente; ma la sincerità gli imponeva di desiderare in Orune l’avvento dei piccoli proprietari». Francesco Dore rimase incantato dalla «seduzione che esercitava sulle folle Attilio Deffenu, quando, lasciando la lingua italiana, imprimeva alle sue parole maggiore vigorìa e fierezza, con le frasi incisive dello schietto dialetto natìo che egli sapeva adoperare in maniera meravigliosa, con quell’accento secco, duro, imperioso che dà al dialetto del capoluogo l’autentica impronta dell’antico idioma latino».

È sempre Dore a raccontare che Deffenu «aveva intelligenza chiara, ingegno pronto, lo spirito assai combattivo. Il problema più astruso acquistava alla luce della sua intelligenza una straordinaria limpidezza… La prontezza del suo ingegno si manifestava particolarmente nelle improvvisazioni comiziali. Teneva testa a qualsiasi avversario; non v’era interruzione alla quale non sapesse contrapporre una botta bene assestata per quanto cortese: non obiezione che non sapesse ribattere con impetuosa energia di argomentazioni, o una vena di gentile umorismo ereditata dalla madre ch’è donna di nascoste doti spirituali e virtù eccezionali».

Deffenu era un nuorese innamorato di Nuoro. «Quando parlava della sua città materna, prendeva l’animo, il linguaggio, direi quasi il pennello di quell’altro adoratore di Nuoro che fu Antonio Ballero. Avrebbe voluto essere pittore, per eternare i cari lineamenti di sua madre; per poter avere dinanzi agli occhi - sempre e ovunque egli andasse – i monti, le valli, la luminosità del cielo e lo splendore dei tramonti di Nuoro... Date uno sguardo alle corrispondenze che egli scriveva dalla Sardegna per vari giornali del Continente, troverete che per nove decimi, riguardano avvenimenti, cose e problemi di Nuoro».

Nelle elezioni del 1913 Francesco Dore presenta nuovamente la candidatura, in contrapposizione all’onorevole Are e al candidato d’opposizione Menotti Gallisai. Visita molti paesi del Nuorese accompagnato dai suoi sostenitori. Gode della simpatia di Attilio Deffenu che - pur non sostenendo il suo schieramento politico - lo difende dagli attacchi degli avversari. E dire che quattro anni prima lo stesso Deffenu l’aveva simpaticamente definito «clerico-cavallottiano» nonché «repubblicano a Sassari e prete a Orune». In quest’ultima tornata elettorale fu a fianco di Dore nei comizi tenuti nei cinque comuni del mandamento di Bitti, insieme con «Offeddu, Bandino, Gonario Delitala, Bernardino Sirca e Satta Marchi; il dottor Meloni di Mamoiada, Giuseppe Deffenu, il professor Andrea Marcialis».

Francesco Dore sembra avere fatto tesoro dell’esperienza vissuta nella precedente campagna elettorale. Soprattutto il suo programma riesce a cogliere i segnali di cambiamento che anche in Sardegna cominciano a delinearsi: le idee socialiste che si diffondono negli ambienti operai e minerari dell’Iglesiente; il malcontento degli uomini mandati in Africa a combattere una guerra a loro estranea; l’insofferenza popolare per l’aumento dei prezzi dei generi di prima necessità. Propone perciò la riduzione delle spese belliche, pensioni di vecchiaia per uomini e donne; diminuzione dell’imposizione fiscale per i meno abbienti e applicazione dell’imposta progressiva sul reddito. Questa volta Francesco Dore ne esce vincitore e una mattina di novembre del 1913 fa il suo ingresso trionfale a Nuoro, scortato da una guardia d’onore di cento cavalieri orunesi armati.

È giunto il tempo di partire per Roma e far sentire la voce dei nuoresi nell’aula di Montecitorio. Giampietro e Peppina sono già in età di liceo, è necessario cercar casa. Francesco Dore prende in affitto un appartamento nel quartiere Prati, dove sistema la famiglia. All’arredamento provvede la moglie, che segue la moda allora in voga nelle famiglie dei sardi trapiantati nella capitale. Mobili «di fattura sardesca» e alle pareti quadri di  «autentici barbaricini», come le «teste incisive e mongoliche di Carmelo Floris e quelle sue processioni accorate e desolanti».

In quella casa si raduna un piccolo cenacolo dove - secondo Edoardo Fenu, giornalista dell’Avvenire d’Italia - «convenivano le intellettuali ambizioni di noi provinciali». Tra questi c’è anche Antonio Segni. Peppina Dore, autrice e regolatrice delle dispute dal «gusto già sicuro e scaltro», si mostra fin da allora in «una interessante armonia di silenzio e vivacità, di riflessiva pensosità e d’attività febbrile... pronta ai bei progetti e ad azioni concrete». Qualche volta il sodalizio si trasferisce a casa della Deledda, di cui Peppina è amica e assidua frequentatrice. Ospitalità rara e particolarmente apprezzata, dato che la scrittrice nuorese apre il cancello di casa solo a una cerchia di persone molto selezionata.

La collocazione politica di Francesco Dore è ben delineata in un suo documento postumo: «Feci parte alla Camera del gruppo radicale, che a torto si crede sia stato il gruppo massonico per eccellenza… Quando io andai alla Camera mi trovai di fronte ad una alternativa: sedere a destra, e non potevo perché a destra non vi era posto per le riforme sociali che credevo dovessero costituire la piattaforma della mia opera politica, o a sinistra. Rifuggivo dal centro perché vi predominava l’influsso zanardelliano... Ho improntato tutta la mia azione nella vita pubblica, amministrativa e politica alla maggiore sincerità, senza mai nascondere i miei sentimenti religiosi».

Allo scoppio della Grande guerra Francesco Dore – per quanto intimamente pacifista – è uno dei primi deputati a schierarsi apertamente a favore dell’intervento, perché sente il dovere di assumere tutti i sacrifici e le responsabilità del momento. Con il grado di capitano medico presterà servizio volontario nell’Ospedale Boezio di Roma fino a guerra conclusa, senza trascurare la partecipazione alla vita politica attiva.

Francesco Dore ebbe un ruolo decisivo, si può dire “fatale”, nell’aiutare Attilio Deffenu a raggiungere il fronte, da cui era tenuto lontano perché il Governo «temeva che egli vi volesse andare per farvi propaganda sovversiva contro lo Stato e la monarchia». Nel febbraio 1916 Deffenu è infatti bloccato nell’Ospedale di Cagliari, dove divide la stanza con Carmelo Floris che «vorrebbe lavorare per la Sardegna». A Cagliari ritrova anche il suo concittadino Francesco Ciusa «che mi sembra lavori, ma anche senta il peso della stanchezza», e Mario Delitala «giovine e ardente, soldato di sanità». In una lettera del giugno 1917 Deffenu chiede allo «stimatissimo amico» delle antiche battaglie «di fare qualche pratica perché quei precedenti non abbiano a costituire un ostacolo alla nomina» di aspirante ufficiale, per essere poi inviato «lassù dove farò con molto piacere alle schioppettate con gli austriaci». E alla fine Francesco Dore riesce a convincere il generale Alfieri - allora sottosegretario al Ministero della guerra - «soltanto dopo avergli fatto garanzia che Attilio Deffenu avrebbe fatto al fronte il suo dovere di soldato, di patriota, e non la propaganda di un sovversivo».

Nel frattempo Francesco Dore fu presidente del gruppo medico parlamentare e membro della Commissione Malariologica al Ministero dell’Agricoltura; in anni successivi assunse anche la presidenza della Società di Medicina Legale di Roma.

[Continua]

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